Riflessioni Quotidiane

La matematica della coppia 🔣

Sapete quanto fa 1×2?La risposta corretta è 2.Già, eppure la stessa regola matematica non vale per i rapporti di coppia, infatti la risposta alla domanda è 1.Com’é possibile?Ci sono coppie in cui l’amore, per vari motivi, non viene dimostrato reciprocamente (oppure non è reciproco), c’è un partner che ama per tutti e due.Solitamente in questi …

Riflessioni Quotidiane

Amore e solitudine 🐸 🤴 👸

C’era una volta Arabella, una ragazza piena di talenti, capace ed intraprendente, tuttavia Arabella non era felice perché metteva da parte la sua allegria, curiosità e i suoi bisogni pur di sentirsi apprezzata. Si convinse che solo l’amore avrebbe potuto colmare questo grande vuoto e questa insoddisfazione. Così un bel giorno partì e si recò …

Criminologia e Psicologia Giuridica

La testimonianza di un minore

Da circa un decennio, si fa strada l’idea che, partendo dalla considerazione secondo cui i risultati di una testimonianza dipendono anche dalle modalità di ascolto del teste, il sistema normativo debba includere e tutelare dei veri e propri “statuti speciali” per alcune particolari categorie di fonti testimoniali. La più importante di esse è, senz’altro, rappresentata …

Criminologia e Psicologia Giuridica

La testimonianza di un soggetto con infermità mentale.

L’incidenza del disturbo di mente sulla testimonianza è un tema tanto poco valutato quanto scottante, soprattutto perché celato dietro alla personalità, nei sistemi relazionali e di rapporto con la realtà di colui che viene assunto come testimone. Il disagio psichico, in genere, la patologia di rilievo psicologico e psichiatrico, ed in particolare l’attendibilità intrinseca di …

Criminologia e Psicologia Giuridica

La capacità di rendere testimoninanza

Ogni persona ha capacità di testimoniare, come prevede positivamente l’art.196 c.p.p., ciò sta a significare che qualsiasi persona, possiede la capacità di testimoniare, comprendendo nel novero tutti i soggetti idonei alla testimonianza, persino l’infermo di mente, il minorenne, ed il minore di anni quattordici, seppur in questi 3 casi giudice dovrà valutare con particolare attenzione …

Criminologia e Psicologia Giuridica

La perizia psicologica

Il giudice ha facoltà di disporre l’esecuzione di carattere peritale quando ritiene necessario acquisire valutazioni su cognizioni tecniche riguardanti specifiche scienze o arti, le quali in alcuni casi costituiscono prova ai fini peritali. Ugualmente gli avvocati delle parti, la Procura della Repubblica in una fase del procedimento a anche preliminarmente allo stesso possono richiedere ad …

Storia della Psicologia

Le principali differenze tra nevrosi e psicosi.

Nel saggio Introduzione al narcisismo, redatto nel 1914, periodo in cui Freud utilizzava la prima teoria pulsionale per spiegare il funzionamento psichico, egli sottolinea la principale differenza tra le psicosi e le nevrosi. In termini economici, entrambe le malattie hanno un punto di partenza ovvero la frustrazione attraverso la quale al soggetto è stata tolta …

Storia della Psicologia

La nevrosi attraverso l’ottica freudiana.

“Termine medico che indica un disturbo della sfera affettiva originato da profondi conflitti psichici”

Questa è la definizione che compare sotto la voce “nevrosi” nella maggior parte dei dizionari italiani; il primo medico a coniare questo termine fu William Cullen nel 1769 per indicare disordini psichici causati da un’affezione generale del sistema nervoso; tuttavia fu solo nel ‘900 con Sigmund Freud che il termine nevrosi venne a indicare una patogenesi di tipo psicologico derivato da un conflitto inconscio sorto fra l’Io e quelle pulsioni sessuali che all’Io appaiono incompatibili e che, per tale motivo, sono state rimosse, cioè riportate a livello inconscio e non soddisfatte.

Ma quali sono le principali differenze riscontrate da Freud in ambito nevrotico?

Prima di tutto egli divide in due macro-categorie: le psiconevrosi che hanno origine nell’infanzia, i cui sintomi sono espressione simbolica e sovra determinata di un conflitto, e le nevrosi attuali, che hanno origine nel presente e nelle quali i sintomi non sono espressione simbolica, ma risultano direttamente dall’assenza o dall’inadeguatezza del soddisfacimento sessuale.

Riguardo alle nevrosi attuali esse si dividono in:

  • Nevrastenia: La scarica sessuale è attualmente insufficiente (ad esempio, avviene solo tramite masturbazione), quindi è incapace di risolvere la tensione libidica. Ciò provoca fatica fisica, cefalee, dispepsia, costipazione, parestesie spinali.
  • Nevrosi d’angoscia: La scarica sessuale è mancante e l’eccitamento sessuale si accumula e si trasforma direttamente in sintomi, senza mediazione psichica. I sintomi legati ad essa sono: attesa ansiosa cronica, attacchi d’angoscia.
  • Ipocondria: Per la paura della castrazione, la libido si è ritirata dagli oggetti e si è diretta su determinati organi del proprio corpo. Ciò si manifesta con disturbi organici e quindi con una preoccupazione costante per la propria salute.

Riguardo le  psiconevrosi, esse si dividono nuovamente in nevrosi narcisistiche o psicosi, nella quale la libido è sottratta agli oggetti e reinvestita sull’Io, e per le quali è possibile evidenziare che la libido si è fissata allo stadio del narcisismo primario. Il trattamento psicoanalitico è molto difficile perché non si prestano al transfert.

Di esse fanno parte:

  • Melanconia: Si manifesta con depressione e costanti auto rimproveri destinati in realtà ad un’altra persona nella quale il soggetto si è identificato (identificazione narcisistica) causando il ritiro della libido sull’Io.
  • Paranoia: può manifestarsi come delirio di grandezza (megalomania) come una conseguenza del narcisismo secondario (successivo alla scelta oggettuale), o come Delirio di persecuzione considerato quale difesa da impulsi omosessuali. Con difesa da impulsi omosessuali, si intende un ritorno al narcisismo, ovvero, la libido viene ritirata sull’Io e gli impulsi libidici, che così convergono sull’Io, si trasformano in angoscia.
  • Schizofrenia: il tratto più tipico è la dissociazione in parti reciprocamente indipendenti della vita psichica, l’autismo e il distacco dalla realtà, l’allucinazione e il delirio. La causa è sempre il ritiro della libido sull’Io, ma regredendo ancora più indietro dello stadio del narcisismo primario (come invece avviene nella paranoia). La regressione porta all’abbandono completo dell’amore oggettuale e al ritorno all’autoerotismo infantile (quando le pulsioni parziali non erano state ancora unificate nell’Io corporeo: da qui la scissione). Qui riemerge il processo primario dell’inconscio che determina la perdita del senso di realtà; in seguito, c’è il tentativo di ristabilire una relazione con il mondo, tuttavia, solo in modo parziale, tramite l’allucinazione e il delirio, e senza successo.

Tornando alle psiconevrosi l’altra categoria nella quale si dividono sono le nevrosi di traslazione nella quale la libido è traslata (transfert) su oggetti reali o immaginari, e che di conseguenza, nel trattamento psicoanalitico, si prestano al transfert.

Di esse fanno parte:

  • Isteria o isteria di conversione: La libido sprigionata dal materiale patogeno, a causa della rimozione, viene convertita, cioè viene sottratta alla sfera psichica per riapparire in un’innervazione somatica, scegliendo un certo organo in funzione di un simbolismo inconscio. Il punto di fissazione della libido è nella fase edipica (fallica ma anche orale).
  • Isteria d’angoscia o nevrosi fobica: La libido sprigionata dal materiale patogeno, a causa della rimozione, viene liberata sotto forma di angoscia.
  • Nevrosi ossessiva: Si manifesta con sintomi coatti. La causa è sempre la difesa dalle pretese libidiche dell’Edipo ma c’è una regressione alle fissazioni verificatesi nella fase anale. C’è tensione tra l’Io debole ed un Super-Io crudele, una relazione sadomasochistica, che porta a formazioni reattive.
Psicologia Clinica

Il disturbo ossessivo compulsivo

La conoscenza dei disturbi ossessivi è relativamente recente rispetto ad altre psicopatologie come l’isteria, la melanconia e la follia. Il motivo di tale “ritardo” potrebbe stare nel fatto che facilmente i disturbi ossessivi, quando si evidenziano, possano confondersi con modalità comportamentali socialmente condivise quali modalità di tipo igienico, scaramantico o di tipo religioso legate al peccato. Il termine “ossessione”, dal latino obsidēre con significato di “assediare”, aveva assunto nella letteratura cristiana del Medioevo il significato socialmente riconosciuto di tormento o assedio da parte del diavolo. Solo nell’età moderna è stato possibile riconoscere, in particolare grazie al contributo della psicoanalisi, che il demone di cui si parlava nel Medioevo, era in realtà interno, per cui l’ossessione è diventata un’idea, un pensiero, un’immagine o un’azione fantasticata che si impone nella mente del soggetto contro la sua volontà. Le ossessioni sono descritte come idee che giungono alla coscienza nonostante la volontà del paziente, che non è in grado di sopprimere, benché le riconosca prive di senso e non proprie. All’ossessione si aggiunge, poi, la “compulsione”, quale impulso ad agire, attraverso un’azione rituale, con lo scopo di attenuare lo stato d’animo che l’ossessione procura; ma, nello stesso tempo aggravando l’assedio per la sua caratteristica di obbligatorietà, non procrastinabilità e ripetitività.

Al fine di superare le varie visioni teoriche confrontatesi in età moderne, si sono sviluppati alcuni criteri diagnostici che, tuttora, le principali classificazioni utilizzano: DSM ed ICD-10. La definizione del DSM-IV riporta quattro caratteristiche fondamentali delle ossessioni, più volte sottolineate dalla letteratura classica: il carattere di incoercibilità, perché il soggetto non riesce a liberarsene; il carattere di estraneità, in riferimento al contenuto dell’ossessione, che si presenta come qualcosa di diverso dalla normale esperienza ideativa del soggetto, ritenuto quindi insensato ed incomprensibile; il carattere di persistenza ed ,infine, la coscienza di malattia, ovvero la consapevolezza dell’origine interna della malattia. Sempre per ovviare alle varie differenze teoriche, il DSM-IV ha sancito la scomparsa del termine “nevrosi ossessiva”, introdotto da Freud nel 1896, a vantaggio del termine  «Disturbo Ossessivo Compulsivo» o DOC. A tal proposito, però, è importante sottolineare il dibattito istauratosi in successione al cambiamento di termine. Infatti, sfogliando il DSM-IV, arrivando a «disturbi di personalità», si trova descritto il «Disturbo Ossessivo Compulsivo di personalità» che ha sostituito il termine “carattere ossessivo”. In Psicoanalisi, i quadri di nevrosi ossessiva e di carattere ossessivo hanno una differenza meta psicologica. Infatti, se per la nevrosi ossessiva rileviamo la centralità della regressione sadico-anale, per il carattere ossessivo rileviamo quella delle fissazioni sadico-anali. Vi sono numerose ricerche in letteratura che riportano statistiche molto alte sul DOC, che risulterebbe più diffuso di quanto non si pensi; tuttavia, dai lavori e dalle discussioni degli psicoanalisti, si evince invece che le vere nevrosi ossessive sono abbastanza rare. Probabilmente, il motivo di tale scompenso sta nel fatto che gli psicanalisti tendono a distinguere un quadro di nevrosi ossessiva rispetto a caratteri ossessivi o manifestazioni ossessive, visto che si differenziano quanto a tipo di difese, regressioni, fissazioni, dinamiche di transfert e controtransfert, modalità relazionali e di pensiero. A tal proposito, Savo Spacal (1989), nel lavoro sulla nevrosi ossessiva presente nel Trattato di psicoanalisi, opportunamente differenzia i tre quadri. Riguardo la nevrosi ossessiva, sottolinea come essa sia una psiconevrosi, caratterizzata da ossessioni e compulsioni ego distoniche, frutto del fallimento del complesso edipico, con specifiche difese e modalità di pensiero derivanti da una regressione allo stadio sadico-anale. Le ossessioni e le compulsioni, che sono il principale motivo della richiesta d’aiuto, procurano una sofferenza continua al soggetto, limitando la sua vita personale e relazionale; il carattere ossessivo, invece, viene definito come una struttura di personalità che, pur potendo essere la base caratteriali di una nevrosi ossessiva, è un quadro a sé stante, caratterizzato da fissazioni egosintoniche, ovvero non sentite dal soggetto come difformi dall’Io, derivate da un accentuato erotismo anale. Le formazioni reattive costituiscono l’elemento difensivo più specifico, nel determinare la triade caratteriale «scrupolosità ordine e pedanteria», e non la causa di richiesta d’auto, bensì gli eventuali sintomi somatici che li accompagnano. Infine, definisce le manifestazioni ossessive come una serie di sintomi o atti ossessivi che possono comparire in ogni età della vita e di diversa gravità.

Psicologia Clinica

Patologie del sonno

Accade che il sonno diventi difficoltoso, impossibile o accidentalmente ridotto, (per malattia o per altro); il poligrafo registrerà allora elementi di disturbo al sonno stesso, che sveglieranno il dormiente e generando nello stesso tutto quanto viene definito “insonnia”. Insonne è chi si affatica ad addormentarsi o chi si sveglia più volte durante la notte, ma anche chi insegue risvegli precoci al mattino (il 50 % degli italiani tra anziani e adulti è affetto da questo disturbo). E’ ufficialmente diffusa l’opinione di esperti che identificano l’insonnia come un fedele compagno di soggetti quotidianamente affaticati dal lavoro o oberati di responsabilità familiari.

In questi periodi aumentano infatti ansie e depressioni, tipicamente associate all’insonnia; inoltre certi cambiamenti fisiologici significativi possono provocare rotture nei ritmi normali nel sonno. Spesso l’insonnia non arriva di colpo: comincia con crisi ricorrenti, che poi diventano persistenti e infine croniche. Per questo i medici ritengono che sia importante cogliere in tempo i primi sintomi e intervenire in modo da non permettere alla spirale dell’insonnia di instaurarsi e imprigionare l’individuo.

E’ certo, altresì, che il dormire “male” aumenta con l’età. Negli USA soffre di insonnia l’8 % dei giovani tra i 15 e i 29 anni; questa percentuale però sale dopo i sessant’anni e cresce di più nella “quarta età”. Con l’invecchiamento, infatti, nel corpo umano accadono parecchie cose dal punto di vista sia fisiologico che patologico: molte disfunzioni e malattie influenzano, a volte seriamente, la quantità e la qualità del sonno. Ancora con l’età cambia il tempo d’addormentamento e la capacità di dormire senza interruzioni; i risvegli ricorrenti aumentano e diventano di maggiore durata.

Ci sono poi le patologie. Insonnia e patologie hanno un rapporto a doppio binario, nel senso che se è vero che certe malattie possono provocare l’insonnia, è ancora più vero che l’insonnia può favorire l’insorgere di certe malattie e moltissimi, tra i disturbi del sonno che provocano alcune patologie, non vengono riconosciuti e curati. Tra questi c’è la narcolessia dal greco “narkè” (torpore) e “leipsis” (mancanza), la narcolessia è una malattia che si presenta con diverse varianti. Il dato comune, comunque, è la grande sonnolenza durante il giorno; una sonnolenza prorompente e irresistibile che fa addormentare il paziente ovunque si trovi. A tale sonnolenza possono accompagnarsi forme più o meno gravi di cataplessia: cioè nel corpo si verifica una improvvisa debolezza muscolare che provoca, al soggetto narcolettico, l’immediata caduta a terra. Il soggetto è spesso cosciente di quanto gli sta accadendo ma non è mai in grado di rispondere e reagire perché paralizzato. Altre volte, invece, piomba direttamente nel sonno paradosso, con sogni allucinanti.

Questa strana sonnolenza e questi attacchi di sonno improvvisi e imperiosi sono più o meno dipendenti dal fatto che il soggetto abbia, o non, dormito la notte precedente. Essi, strano a dirsi, sono solitamente scatenati da una forte emozione, o da qualcos’altro che non è stato ancora bene identificato. Una sola cosa è certa: la narcolessia si produce a livello dei sistemi di regolazione del sonno paradosso, e ci sono abbondanti prove che questa malattia sia associata ad un fattore genetico.

Secondo un’ipotesi, il danno sarebbe dovuto a un meccanismo auto-immunitario: cioè l’organismo, reagendo contro una infezione virale, provocherebbe lesioni anche in una parte del cervello, quella che regola il sonno REM. Nonostante ciò, nessuno tra i più illustri studiosi si sente di ammettere pienamente che la narcolessia possa essere una malattia ereditaria in senso stretto; anche se è stata provata una correlazione con i parenti di primo grado.

Tra l’altro va anche detto che la narcolessia è stata osservata anche in alcuni animali, come ad esempio i cani. La poca conoscenza della malattia, purtroppo, non consente di fornire al momento cure adeguate; tuttavia l’attacco di cataplessia può essere attualmente curato abbastanza bene con alcuni farmaci, a differenza dell’attacco di sonno che è più difficile da trattare o controllare.

Psicologia Generale

Quali fattori influenzano la sonnolenza?

La molteplicità dei livelli di misurazione e di strumenti di misura della sonnolenza ha permesso una comprensione migliore del fenomeno ma anche delle cause che ne determinano l’insorgenza. In generale le variazioni giornaliere della sonnolenza dipendono sia da fattori endogeni sia che fattori esogeni. Johnson (1982) ha indicato un elenco di cause diverse capaci di influenzare sì è la vigilanza quanto le prestazioni di un individuo.

Potremmo quindi schematizzarle così come riportato in figura

Determinanti della sonnolenza. (Johnson, 1982)

Alla luce delle determinanti appena elencate potremmo suddividere le stesse in due macro aree da trattare separatamente: fattori circadiani e connessi al sonno, e le differenze individuali.

Determinanti della sonnolenza: fattori circadiani e connessi al sonno.

In questa macro area rientrano i fattori connessi al sonno come quantità e qualità, quelli di tipo circadiano, la fatica indotta derivata da un’attività prolungata; tentando di capire come questi contribuiscono a modellare livello di vigilanza.

Determinanti della sonnolenza: differenze individuali.

Tra i fattori capaci di influenzare i livelli di sonnolenza si devono annoverare una serie di tratti individuali che differentemente modulano i livelli di vigilanza. Infatti anche controllando sperimentalmente tutte le variabili circadiane, quelle relative al sonno, si osserva una variabilità interindividuale ed intra individuale dei livelli di vigilanza. Il primo fattore che bisogna considerare apprestandosi ad affrontare le differenze individuali riguarda la distinzione tra le differenze individuali di tipo permanente e quello di tipo temporaneo. Le prime sono da considerarsi delle differenze di tipo costituzionale ovvero caratteristiche che esistono per motivi genetici o fisiologici, tra questi il genere caratteristiche di personalità o la tipologia circadiana. La seconda tipologia invece riguarda perlopiù quell’insieme di capacità e abilità che influiscono sui fattori omeostatici e/o circadiani che producono sonnolenza e che potremmo chiamare anche meccanismi di coping.

Per quanto riguarda le caratteristiche di personalità, la maggior parte degli studi sulla sonnolenza hanno permesso di distinguere due categorie di soggetti: quegli con buona prestazione quella con cattiva prestazione. Durante gli anni 60 si pensò alla possibile esistenza di una relazione tra caratteristiche di personalità e ritmi biologici. Infatti il costrutto che sembra presentare maggior grado di predittività delle capacità di prestazione risultò essere quello di introversione/estroversione riferitesi alla teoria della personalità di Eysenck (1967). Questa teoria infatti individua tre principali dimensioni di personalità: nevroticismo-stabilità, psicoticismo-superego e infine estroversione-introversione. L’autore cercò di spiegare il fenomeno attraverso l’uso di quella che egli chiama inibizione reattiva; ovvero i soggetti estroversi avrebbero dei potenziali inibitori che si svilupperebbero velocemente e si dissiperebbero lentamente. Potremmo dire quindi che alla base della dimensione I-E ci sarebbe il bilanciamento tra eccitazione inibizione. Successivamente lo stesso tuo le riformulò la sua teoria riprendendo il concetto di arousal secondo cui gli introversi presenterebbero un livello di attivazione di base più elevato rispetta gli estroversi.

Più di recente Hockey (1986) ha rigettato questo tipo di modello ipotizzando invece che esista una capacità di controllo diversa: gli introversi sarebbero capaci di esercitare maggior controllo sull’attività interna e quindi meno influenzabili dalla presenza di fattori attivanti come ad esempio droghe, rumori, compiti secondari o incentivi. Per quanto riguarda la relazione tra estroversione-introversione, caratteristiche prestazionali e sonnolenza, i dati risultano contrastanti, alcuni autori, infatti, hanno riportato una serie di dati che indicherebbero come gli introversi fornirebbero delle prestazioni migliori al mattino e peggiori nell’arco della giornata. Tuttavia queste covariazioni non sempre sono chiare e univoche.

Un altro tratto individuale stabile che presenta una relazione con la sonnolenza risulta essere la tipologia circadiana ovvero la caratteristica di mattutinità o serotoninità; la distinzione degli individui sulla base della loro tipologia è risultato un criterio ottimale di predizione sia per alcune prestazioni psicologici sia per alcuni ritmi più prettamente biologici. Questa distinzione è stata resa possibile grazie allo sviluppo di diversi questionari standardizzati come il Morningness-Eveningness Questionnaire (MEQ, Horne e Ostberg, 1976). La versione italiana dello stesso è stata proposta da Violani et al. (1992), i due autori hanno distinto tre principali tipologie i mattutini o M-type, i serotonini o E-type e la categoria intermedia I-type o N-type. Diversi studi elettrofisiologici hanno mostrato come le differenze tra i due tipi di soggetti non riguardi né la lunghezza del periodo di sonno necessario né la struttura del sonno, ma semplicemente l’orario preferito da ciascuno per l’attività e per il riposo, caratteristiche che rimangono costanti anche in condizioni di free-runnig. Altra differenza riguarda il ciclo della temperatura corporea, esso è diverso nei soggetti serotonini e soggetti mattutini, i primi infatti presentano un acrofase posticipata da una tre ore e presentano anche un’ampiezza della temperatura maggiore. Per quanto riguarda le variabili psicologiche si è visto come, per i soggetti mattutini, le prestazioni sia motorie che cognitive siano migliori al mattino, come si presentino prestazioni costanti durante tutto l’arco della giornata ed infine come questa tipologia coincida con la caratteristica dell’introversione.

Le spiegazioni di tipo fisiologico di queste differenze riguardano perlopiù il livello di esecrazione di adrenalina che nei soggetti mattutini sarebbe maggiore al mattino mentre nei soggetti serotonini sarebbe presente un’escrezione costante.

In conclusione questi dati suggeriscono che i soggetti mattutini e sono anche tendenzialmente più introversi, hanno migliori prestazioni e maggiorui livelli di tolleranza alla sonnolenza estrema.

Altro fattore importante riguarda l’età, infatti è noto come ad età più avanzate corrisponda un ciclo di sonno più frammentato, infatti gli anziani presentano un numero più elevato di risvegli notturni e un numero maggiore di sonnellini diurni dovuti più che altro all’accumulo di sonnolenza conseguente alla ridotta quantità e qualità del sonno.  L’età è inoltre spesso connessa al concetto di tipologia circadiana, infatti chi è serotonino o mattutino non è detto che rimanga tale per tutto l’arco della sua vita. Durante primi mesi di vita infatti si instaura un ciclo semplice costante di ritmicità ultradiana il cosiddetto ciclo BRAC ipotizzato da Kleitman nel 1963. Solo dopo i tre anni di età si instaura un ritmo simile a quello circadiano, ritmo che si stabilizzerà progressivamente fino all’età di 15 anni; questo ritmo tenderà ad assumere caratteristiche di mattutinità nei giovani adolescenti mentre per i giovani adulti si osserverà una chiara tendenza alla seroninità. Con il progredire dell’età ovvero oltre cinquant’anni si evidenzia invece una tendenza per tutti soggetti a diventare più mattutini. Quindi questi dati permettono di concludere che livelli sonnolenza sono maggiori e il grado di sopportazione della stessa èvminore al progredire dell’età.

Altre differenze riguardanti le caratteristiche di tipo permanente sono quelle che riguardano i ritmi circadiani in funzione del genere; perlopiù è stato ipotizzato che esse dipendano da alcune diversità della ritmicità neuroendocrina sottostante. Sembra infatti che gli estrogeni funzionino come attivatori del sistema nervoso centrale, mentre il progesterone presenterebbe tendenzialmente un effetto opposto. Alcuni studiosi (Broverman et al., 1968) hanno addirittura proposto un modello delle variazioni di efficienza cognitiva nelle donne:il livello di attivazione sarebbe maggiore al nono giorno del ciclo fino all’ovulazione, quando cioè gli estrogeni sono al loro massimo, mentre il periodo premestruale, con il progesterone e gli estrogeni al minimo, l’attivazione dovrebbe risultar ridotta. In ogni caso è stato comunque sottolineato che le donne rispetto agli uomini presentano un maggiore livello generale di attivazione, una gamma di oscillazioni delle presentazioni più ampia e una tendenza alla mattutinità.

Negli ultimi anni diversi studi si sono occupati del problema relativo ai meccanismi di coping in situazioni lavorative particolari. Alcune rassegne (Rosa, 1990; Harma, 1993) si sono trovati concordi nell’individuare una serie di fattori che avrebbero un ruolo determinante nelle capacità individuali nel far fronte ai cali di vigilanza. Il primo fattore è la responsabilità o impegno: che potremmo definire come tolleranza alla sonnolenza; infatti questa può essere fortemente influenzata dalla disponibilità e dalla motivazione delle persone a conformare le proprie abitudini di vita all’orario lavorativo, tale disponibilità tuttavia è a sua volta influenzata incentivi monetari e alla possibilità di facilitazioni o di avanzamento della carriera. Il secondo fattore che va considerato è la stimolazione ambientale: infatti vari meccanismi possono indurre la sonnolenza durante i turni lavorativi: un ambiente monotono, poco illuminato ed eccessivamente riscaldato. Si è provato individuare quali sono le strategie adattive orientate a movimentare il turno lavorativo e si è così evidenziato come la musica o la stimolazione sonora rappresentano un ottimo metodo per incrementare la prestazione o comunque per prevenire i cali di vigilanza. La temperatura molto elevata risulta un fattore fortemente stressante, pertanto si ritiene utile mantenere l’ambiente a temperatura costante e non molto elevata. Un altro fattore interveniente è l’attività motoria o l’esercizio fisico; è molto interessante come questo possa fungere da un utile contromisura per prevenire la sonnolenza, infatti anche un esercizio leggero come una passeggiata presente la caratteristica di migliorare la prestazione e incrementare il livello di allerta.

Un ultimo fattore ma non meno importante nel promuovere un migliorare le prestazioni o comunque per ridurre la sonnolenza riguarda l’illuminazione ambientale. In vari studi è stato mostrato come la moderata e costante luce artificiale possa innalzare livelli di allerta. Campbel e Dawson (1990) hanno infatti ricontrato come un’illuminazione ambientale costante di circa 1000 lux è sufficiente a migliorare tanto le prestazioni cognitive quanta la vigilanza notturna rispetto ad una condizione di controllo con illuminazione a 100 lux. Tuttavia sebbene livelli di illuminazione sembrano influenzare positivamente alcune variabili prestazionali e soggettive le variabili più direttamente connesse ai livelli di sonno lenza quali potenze spettrali delle onde delta e theta nell’EEG dei soggetti ad occhi chiusi, non sono risultate sensibili alle diverse intensità di illuminazione. Un altro metodo ben conosciuto e comunemente utilizzato è quello del ricorso ad aiuti farmacologici, spesso infatti si fa uso, per promuovere la vigilanza, di eccitanti tipo caffeina e anfetamina oppure per facilitare il sonno ipno-inducenti come le benzodiazepine.

Un altro fattore da tenere in considerazione nella gestione dello stato di vigilanza è quello legato a regime di dieta; la ricerca infatti si è rivolta allo sviluppo di regimi alimentari tali da favorire vigilanza o rilassamento. Diversi studi (Lennernans et al., 1994) hanno evidenziato una serie di variabili nutrizionali al fine di individuare la dieta giusta all’aumento della vigilanza: una quantità ridotta o moderata di cibi altamente proteici può aiutare a sostenere periodi di allerta, mentre cibi con alte concentrazione di carboidrati hanno la caratteristica di indurre la sonnolenza.

Tra le caratteristiche di coping vanno considerate anche le norme chiamate igiene del sonno (Zarcone, 1994) ovvero una serie di comportamenti errati che spesso vengono adottati in concomitanza con la fase di addormentamento che possono rendere difficile la transizione veglia-sonno. Tra questi comportamenti ci sono la rumorosità dell’ambiente, la temperatura, la quantità e qualità dei cibi o di liquidi assunti precedentemente, l’assunzione di nicotina o di altre sostanze quelle di esempio quelli facenti. Studi invece si sono perlopiù focalizzati su quella che è la gestione della vigilanza e le modalità di coping riguardanti appunto la sonnolenza in ambito lavorativo: è stato evidenziato che la presenza di sonnellini preventivi consentono di mantenere livelli di prestazioni migliori rispetto a quelle osservate in assenza di sonnellini.

Criminologia e Psicologia Giuridica

Serial Killer

Uno dei fenomeni più interessanti della criminologia è caratterizzato dallo studio del “serial killer”, denominazione anglo-americana che in lingua italiana significa “assassino seriale”, nel 1957 venne usato il binomio di “chain killer” per denominare una catena di omicidi ma l’espressione “serial killer” venne utilizzata nel 1970 dall’agente speciale dell F.B.I. Robert Ressler. Il termine aveva principalmente lo scopo di distinguere il comportamento di chi uccide ripetutamente nel tempo con pause di raffreddamento, dagli omicidi plurimi che si rendono colpevoli di stragi.

Nonostante non esista una definizione univoca di assassino seriale, c’è accordo sul definirlo come <<individuo che sulla base di un’associazione di motivazioni quali potere, sesso, dominazione e morte, commette ripetutamente,in differenti locazioni ed in un arco di tempo variabile, più omicidi >>. Tecnicamente si considera “serial killer” chi compie tre o più omicidi distribuiti in un arco relativamente lungo di tempo, intervallati da periodi di “raffreddamento emozionale” (cd.” Cooling off period”) durante i quali il serial killer conduce una vita sostanzialmente normale. Differenziamo il serial killer per alcuni aspetti infatti esiste anche lo spree killer ovvero assassino compulsivo che commette omicidi di due o più persone in un lasso di tempo molto breve, in luoghi differenti ma contigui; poi c’è il mass murder o assassino di massa che uccide quattro o più persone nello stesso luogo e nello stesso episodio,egli è il tipico esaltato che vuole mandare un messaggio alla società e per farlo è disposto a sacrificarsi, in quanto non crede di uscire illeso dall’episodio.

  • Caratteristiche tecniche del “serial killer”

Dall’analisi del delitto si possono ricavare alcune caratteristiche di base dell’assassino seriale:

– MODUS OPERANDI: Esso comprende tutte le modalità ed i mezzi utilizzati per portare a termine gli omicidi e comprende anche i criteri di individuazione, cattura e uccisione della vittima. Il modus operandi varia con il tempo perché , con la pratica, l’assassino migliora la tecnica e riduce i rischi di essere identificato. È sempre presente negli omicidi seriali anche se è importante considerare che più assassini seriali possono avere lo stesso modus operandi. Ne consegue che esso risponde alla domanda “come” un crimine si è consumato.

– LA SIGNATURE: Chiamata anche “firma” è un elemento non necessario ai fini del delitto quindi non sempre presente, bensì comprende tutto ciò che deve mettere in atto l’assassino per raggiungere il proprio “appagamento”, cioè un soddisfacimento psicologico dell’assassino, ne consegue che è costante in ogni delitto e non varia negli anni; c’è da sottolineare che esso è un elemento piuttosto raro nella vita reale. La signature risponde alla domanda del “perché” il crimine è stato consumato.

– LO STAGING: Lo staging o in italiano “messa in scena” è l’ alterazione della scena del crimine da parte dell’assassino al fine di sviare le indagini. Il motivi di tale comportamento sono due: depistare le indagini è quella più plausibile, l’altra viene applicata soprattutto per i delitti sessuali che per errore portano alla morte del soggetto.

– L’UNDOING: Rappresenta la modificazione del luogo del delitto, ma questa volta è visto come un rimorso dell’assassino che si rende conto di ciò che ha fatto e allora può coprire il volto della vittima, spostarne il corpo o cercare di dargli dignità posizionandolo in modo diverso da come l’avrebbe dovuto trovare la polizia.

C’è però una caratteristica comune a tutti i serial killer ;la serialità, da cui il nome stesso deriva. Dopo l’omicidio si assiste ad una fase chiamata cooling off period nel quale l’assassino si sente emotivamente appagato anche nel solo ricordare l’atto omicidiario, rielaborando le emozioni vissute. Secondo alcuni autori come Wilson il serial killer entra in un cd. “circolo vizioso”, ovvero egli fantastica sull’omicidio poi mette in atto questa fantasia e prova un’intensa sensazione di potere così che, esaurito il periodo di raffreddamento emotivo, egli riprende ad uccidere.

  • La nascita dell’istinto omicida

Secondo Paolo De Pasquali Il fattore che sta alla base del comportamento omicidiario seriale è: la necromania cioè una perversione dell’istinto della vita che determina un interesse patologico per la morte, esperito mediante il dare la morte e il successivo contatto con il cadavere. Secondo la teoria di Marco Strano la nascita dell’istinto omicida nei serial killer attraversa 5 fasi:

  1. Fase della pulsione-motivazione omicidiaria; nasce nel soggetto l’idea della commissione dell’omicidio
  2. Fase della fantasia omicidiaria; il soggetto comincia a fantasticare sulla possibilità di commettere l’omicidio, in questa fase spesso l’impulso omicidiario si interrompe in quanto il soggetto giudica irrealizzabile il suo “piano”.
  3. Fase dell’anticipazione mentale degli effetti dell’azione omicidiaria; in tale fase il soggetto anticipa le possibili conseguenze dell’atton sia positive che negative, e comincia a vivere mentalmente l’ “atmosfera dell’omicidio”
  4. Fase della progettazione omicidiaria; il soggetto sceglie i metodi, i luoghi e gli stumenti adatti al fine delittuoso.
  5. Fase dell’esecuzione dell’omicidio; in cui il soggetto attua le sue fantasie, ovviamente questa è la fase di maggior carica emotiva del killer.
  •  Tipologie di serial killer

Prima di poter elencare le tipologie di assassino seriale dobbiamo specificare il criterio in base a cui catalogare; quindi prima di tutto dobbiamo fare una differenza tra la categorizzazione in base al modus operandi ed in base alla motivazione che spinge a diventare un serial killer. Riguardo le motivazioni la criminologia moderna ha individuato quattro categorie:

  •  MISSIONARIO: afferma di uccidere per motivi etico-morali come se la sua fosse una “missione”. Predilige vittime di una determinata categoria ad esempio omosessuali o prostitute, solitamente la categoria scelta è quella che ha, nella sua vita privata, avuto un forte impatto negativo, questa idea rafforza la convinzione di svolgere un bene per l’umanità, gli evita quindi di poter percepire alcun tipo di rimorso e andrà avanti finchè non sarà catturato. Un esempio emblematico è quello di Pedro Alfonso Lopez, venditore ambulante colombiano accusato di 310 omicidi. 100 bambine seviziate e strangolate in Colombia, altrettante in Perù, 110 in Ecuador, dove, colto sul fatto, fu arrestato. Lo strangolatore delle Ande si definiva un liberatore. “Le ho soppresse per liberarle dalle sofferenze che subivano nella vita terrena” ha riferito, calmo, durante una dettagliata confessione.
  •  EDONISTA: è colui che uccide per il puro piacere di farlo,esso può essere spinto da una componente sessuale, nel qual caso parleremo di “lust killer” per la quale esiste uno strettissimo legame tra il raggiungimento dell’orgasmo e la morte della vittima. A questo si accompagnano spesso altre parafilie post-mortem come il cannibalismo o la necrofilia dalla quale il serial killer non può prescindere e non può farne a meno. Un’ultima sottocategoria sono i “thrill killer” il cui piacere estremo è procurato dalla sfida verso le autorità ed il senso del pericolo.
  • VISIONARIO: è solitamente un individuo con gravi turbe psichiche, ad esempio la schizofrenia, che lo portano a soffrire di violente allucinazioni le quali possono essere sia visive che uditive in cui eglicrede di ricevere un messaggio divino, extraterrestre o comunque di un’entità suprema e superiore. La giustificazione che adduce alla sua condotta, è quella di un atto dovuto e di obbedienza, in funzione di un disegno superiore per il quale lui è stato scelto come tramite. Spesso si tratta di individui che hanno avuto un’educazione religiosa vigorosa e orientata al fanatismo.
  • -DOMINATORE: ha bisogno di sentire il controllo sulla propria vittima ed arriva ad ucciderla come sublimazione del controllo stesso, oppure perchè, essendo spesso un individuo socialmente inadeguato, non ha altro modo per poter controllarla e poterne disporre a suo piacimento. Spesso utilizza droghe o alcool per neutralizzare le resistenze. L’eventuale stupro, mutilazione e/o altri atti inflitti al cadavere hanno attinenza solo al totale controllo sulla vittima e all’idea di onnipotenza che ha di sè stesso. In questo caso, Jeffrey Dahmer, il tristemente famoso cannibale di Milwakee è un esempio tipico. Dahmer adescava giovani omosessuali, li portava prima a casa sua dove li teneva in uno stato di incoscienza per un periodo di tempo nel quale li torturava e seviziava per poi inevitabilmente ucciderli. Per ottenere un controllo totale sulle sue vittime era andato così in là da tentare assurdi esperimenti attraverso fori nel cranio per creare degli “zombi”, schiavi sessuali ai suoi comandi.

Per quanto concerne il modus operandi invece l’ F.B.I. ha suddiviso i serial killer in due categorie:

  • ORGANIZZATO: E’ un individuo sessualmente adeguato, di intelligenza media o superiore alla norma. E’ integrato nella società e svolge lavori che richiedono abilità. Spesso occupa un alto grado di genitura (quasi sempre primogenito) ed ha avuto un’educazione in cui la disciplina era pressoche inesistente. Possiede un mezzo di trasporto in buone condizioni e, solitamente, vive con il partner. Pianifica l’aggressione, fa uso di alcool o droghe e mantiene un controllo delle emozioni durante l’atto criminoso. Esige una vittima che sia sottomessa al suo volere, sulla quale compie atti violenti prima della morte. Si rivolge ad individui sconosciuti. Trasporta la vittima in un posto che gli dia tranquillità e tende a nasconderne il cadavere. Sicuramente seguirà l’evolversi delle indagini attraverso i media. Non lascia armi o tracce sul luogo del rinvenimento del cadavere
  • DISOGRANIZZATO: Sessualmente inadeguato e di intelligenza inferiore alla norma. Quasi sempre estromesso dal contesto sociale, svolge lavori preferibilmente manuali o ripetitivi, che non richiedono specializzazione o abilità. Conosce la vittima e preferisce depersonalizzarla dopo la morte (ad esempio coprendole il volto) senza preoccuparsi di nasconderne il cadavere. Durante l’aggressione perde il controllo delle emozioni, lasciando tracce o prove sulla scena. Compie spesso atti sessuali sulla vittima solo dopo la morte di quest’utlima. Vive solo e quasi sempre vicino alla scena del crimine.

Esistono però altre piccole categorie nel quale possono identificarsi molti serial killer ad esempio gli “angeli della morte”, generalmente killer di sesso femminile che lavorano in campo medico e affetti da disturbo borderline, nella maggior parte dei casi uccidono con sostanze letali ai pazienti di cui si prendono cura, solitamente bambini anziani ed invalidi. La motivazione degli angeli della morte è la liberazione dalle sofferenze dei propri pazienti anche se, spesso questi ultimi al momento del delitto non erano in condizioni gravi. Esempi possibili sono Sonia Caleffi o Harold Shipman. Passiamo poi alla categoria dei “killer professionisti”, come i sicari, questi però non possono essere considerati dei veri serial killer perché non commettono omicidi per appagamento emotivo o psicologico ma bensì per compenso monetario. Ultima categoria è quella delle “vedove nere”; generalmente donne che agiscono in modo simile al ragno che ha ispirato la loro denominazione: sposano uomini ricchi e, dopo essersi appropriate delle loro proprietà, li uccidono, solitamente avvelenandoli o simulando degli incidenti domestici; possibili esempi sono Mary Ann Cotton e Belle Gunnes.

C’è da aggiungere però che queste categorie non sono fisse, nel senso che esistono serial killer che presentano caratteristiche di due o più categorie, quindi possono essere assegnati ad entrambe. Le stesse considerazioni valgono nel caso di quei serial killers il cui movente varia da un delitto all’altro, e di quelli che non hanno un tipo di vittima preferito e nonostante essi sembrano spinti a uccidere da un “bisogno interno” in realtà provano una compulsione omicida tale, che si impone sopra qualsiasi altra considerazione razionale.

Criminologia e Psicologia Giuridica

Quali sono le caratteristiche e le influenze che incorrono nella vita di un soggetto fino renderlo un serial killer?

– MODELLI MOTIVAZIONALI; IL modello motivazionale di Douglas, Ressler e Burgess) si compone di cinque elementi:

  • L’ambiente sociale: Gli studiosi delle relazioni familiari sostengono che le interazioni fra la famiglia e l’individuo sono elementi fondamentali per la crescita e la formazione di un’immagina positiva di sé. Per un bambino in crescita il genere di attaccamento alla famiglia si tradurrà in uno schema generale di come comprenderà e categorizzerà le cose al di fuori della famiglia stessa e influirà in modo decisivo sul suo grado di adeguamento sociale. Molto spesso gli adulti non sono efficaci nell’imporre una corretta disciplina accompagnata da adeguate spiegazioni sulle norme di comportamento. Spesso i genitori non reagiscono a particolari atti devianti dei figli e assumono un atteggiamento indifferente; questo può portare nell’adolescente alla convinzione di non essere in realtà colpevole di niente. Non solo gli adulti non sono in grado di fornire delle linee guida per il fanciullo ma spesso impongono indiscriminatamente ai figli aspettative e valori adulti, con il risultato di scoraggiare i ragazzi da qualsiasi interazione con gli altri facendoli sentire incapaci ed emarginati. Da questa emarginazione e repressione nasce il rifugio nel mondo delle fantasie.
  • Eventi formativi: Ci sono tre fattori principali che influiscono sulla formazione. Il primo è il trauma, in forma di abuso fisico, psicologico o sessuale. Questi eventi possono essere traumi diretti come violenze subite in prima persona o traumi indiretti, come assistere a scene disturbanti. L’ambiente non reagisce in nessun modo ai traumi del soggetto, favorendone l’isolamento e non premettendogli nessun tipo di recupero. Un secondo assunto è che queste esperienze moleste influenzano il modo in cui il soggetto si relaziona con altri. Spesso il risultato è che il ricordo e la fissazione del trauma provoca una iper o una ipo sensibilità e quindi un eccessivamente alto o eccessivamente basso livello di eccitazione, nervosa ed emotiva. Se questi livelli sono alterati, le relazioni interpersonali ne risentiranno perché il soggetto avrà reazioni anormali e ricercherà stimoli continui e anomali. Il fallimento delle relazioni interpersonali, il nostro terzo elemento, rappresenta l’inefficienza da parte dei genitori di fornire un modello di comportamento socialmente adeguato. Il padre o la madre possono essere alcolizzati, oppure il bambino può essere testimone di episodi in famiglia in cui la violenza e gli elementi erotici sono strettamente legati. Vale, qui più che mai, il classico principio dell’educazione che vedere un padre che esercita la violenza con successo in famiglia può insegnare al bambino l’insana lezione che la violenza funziona, all’interno del microcosmo della famiglia come nel macrocosmo della società.
  • Risposte agli eventi: le risposte agli eventi sono divisibili in due grandi categorie; i tratti critici della personalità e le funzioni e i processi cognitivi. Nello sviluppo sano del bambino sono fondamentali i tratti personali positivi come fiducia, sicurezza e autonomia aiutano a stabilire le relazioni dell’individuo con gli altri. Tutto ciò, combinato con un ambiente sano e positivo, aiutano il bambino a sviluppare competenza sociale e fiducia in se stesso e negli altri. Nel serial killer c’è invece una propensione allo sviluppo di tratti di personalità negativi che interferiscono con la formazione di relazioni sociali e con lo sviluppo di emozioni e risposte emotive nei confronti dell’ambiente sociale; egli basa il suo sviluppo emotivo sulle proprie fantasie e sui loro temi dominanti emergono quindi: un senso di isolamento sociale, una preferenza per le attività autoerotiche, una forte tendenza alla ribellione, aggressività e un senso di essere privilegiati e di sentirsi autorizzati a fare qualsiasi cosa. Le conseguenze di questo stato sono una general, con conseguente sfiducia nelle relazioni umane e rabbia verso la società che li rifiuta. Il cronico mentire dell’assassino riflette una mancanza di fiducia e di possibilità di scambio reciproco con gli altri ; al contrario egli sviluppa invece un senso di autorizzazione implicita a fare tutto quello che vuole come conseguenza della rabbia e dello spostamento della colpa sulla società. Riguardo i processi cognitivi, con questi termini facciamo riferimento a quell’insieme di schemi cognitivi che servono per il controllo e lo sviluppo della vita interiore e che poi legano l’ individuo al contesto sociale. Questo schema è diretto a preservare uno stato interno di tranquillità e di calma attraverso la riduzione dell’ansia, del terrore e, molto importante, della sensazione di impotenza. Le funzioni cognitive sostenute dal contesto sociale e le interazioni con esso. Quando il contesto sociale è critico e le interazioni traumatiche, le funzioni cognitive si orientano a sostenere l’individuo e si organizzano in schemi fissi di pensiero e di comportamento. Quindi nei futuri serial killers si sviluppano unicamente funzioni negative, volte cioè a riparare i traumi ed equilibrare gli stati emotivi sempre e comunque in risposta a una serie di eventi e di convinzioni che si autoalimentano. È specificamente in questo momento che i temi di controllo e di dominio sugli altri prendono il sopravvento sulla vita interiore dei soggetti. Il pensiero tende così a ragionare per assiomi e senso comune perdendo la capacità di giudicare momentaneamente e continua ad essere legato a quegli schemi fissi su cosa le persone pensano di lui. In questo modo i livelli di attivazione emotiva e di eccitazione dei soggetti finiscono per concentrarsi unicamente intorno agli schemi fissi quindi monotona e statica e da qui nasce la ricerca di stimoli forti.
  • Le azioni verso gli altri: I bambini in condizioni sane cambiano e adattano il loro pensiero ogni giorno per conseguenza delle sfide e degli stimoli che il mondo propone loro, sviluppano quindi una flessibilità che nel bambino potenziale serial killer non esiste; egli infatti prova unicamente esperienze verso l’illegalità e la crudeltà verso gli animali che agli altri passano inosservate e impunite o perlomeno il bambino è in grado di rifugiarsi nel suo mondo interiore per rendersi comunque conto che le sue azioni non sono sbagliate e che aveva il diritto di fare le cose che ha fatto; questo isolamento porta solo ad auto-confermare il carattere non nocivo delle sue azioni. Per conseguenza le azioni violente verso il mondo, orientate a provare le stesse sensazioni di dominio e di controllo che caratterizzano il mondo interiore del soggetto, diventano sempre più crude e senza rimorso. Si passa dalla crudeltà sugli animali e la piromania nella prima infanzia, alle violenze sui compagni e ai conflitti con gli adulti nell’adolescenza, ai crimini veri e propri subito dopo, furti, aggressioni, stupri, omicidi.
  • Il feedback mentale dell’assassino:  l’assassino risponde alle sue azioni con una serie di considerazioni mentali che a loro volta influenzano le sue azioni future. Si è potuto notare infatti che le azioni dei serial killers subiscono dei cambiamenti così come le loro fantasie e il loro modo di porsi verso la società, il crimine e le altre persone. Ovvero man mano che commettono crimini la loro psiche e le loro fantasie vengono alimentate dalle nuove conoscenze ed emozioni creando sempre più giustificazioni alle azioni delittuose. Alcune fantasie diventano tali da ricreare mentalmente e concretamente una sfida verso le autorità come se fosse un macabro gioco, e queste eccitazioni e sensazioni di forza e dominio rispetto alla polizia alimentano la dimostrazione della loro superiorità.

– MODELLO DIATHESIS-STRESS : postulato per la prima volta da Gottesman e Shield nel 1982 e poi rivisitato da Hans e Marcus nel 1987 secondo cui “la combinazione di un ambiente traumatico e di una naturale predisposizione genetica a risposte condizionate generano conflitti a livello di concetto e di stima di sé”. Ovviamente tutto ciò è aggravato dalla natura sessuale dei traumi e dalle risposte ad essi. In pratica nel serial killer avviene una dissociazione tra le fantasie interne e la vita reale, la sua personalità si sdoppia e arriva a far prevalere la parte violenta, egli arriva a capire qual è la sua ossessione e come placare questo bisogno o meglio come soddisfare il bisogno, ormai è entrato in un circolo vizioso sempre più esigente. Proprio per questo molti non reggono alle auto-pressioni e commettono errori fatali che li porteranno alla cattura. Ad esempio Ted Bundy, inesorabile nello sparire nel nulla, verso la fine della “carriera” commette una stupidaggine dietro l’altra in preda a una vera e propria frenesia oppure Jeffrey Dahmer viene alla fine arrestato in preda a uno stupore quasi ipnotico, la sua psiche è così satura e distorta dalle dissociazioni che non è più in grado di orientarsi.

– MODELLI MINORI: Alcuni modelli si sono soffermati sulla biologia e le basi innate dei possibili serial killer, alcune interpretazioni sostengono che le cause di questi fenomeni seriali siano da ricercare negli squilibri ormonali, in particolare del testosterone, in pratica l’eccesso di tale sostanza provocherebbe un forte impulso di uccidere. Ma si può sinceramente affermare che la maggior parte delle tesi innatiste sono state ampliamente confutate. Discorso a parte possiamo farlo riguardo agli studi genetici. Il primo appartiene al Massachussets General Hospital e concerne gli effetti di una anomalia genetica riscontrata in un gruppo di soggetti che metabolizzavano in modo anormale l’enzima monoamminico di oxidase, detto anche MAOA, una sostanza che influisce sulla gestione della dopamina, della serotonina e della noradrenalina, componenti che sappiamo influenzare il comportamento e i sentimenti di qualcuno in modo determinante. Un altro dibattito molto fiorente è quello intorno al cromosoma 47 XYY. Jacobs, Brunton e Melville iniziarono la prima ricerca su cromosomi maschili XYY scoprendo questo cromosoma aggiuntivo in una nutrita schiera di criminali accusati di criminali violenti. Money (1970) sottolinea come bambini con XYY fossero dotati di personalità enigmatica, soffrissero di significativo isolamento e tendessero a essere tremendamente irascibili e violenti nelle loro rare manifestazioni verso gli altri. Sembra che questo cromosoma in eccesso aumentasse il valore di un metabolita, chiamato “Urine kryptopyrrole”, endogeno che negli esseri umani “normali” è presente in dosi microscopiche. Le ricerche che associano questo fattore con i comportamenti aggressivi e tipici degli assassini seriali sono molte, fra le tante, anche quella di Krauss che afferma con sicurezza che alti livelli di Urine kryptopyrrole portano a comportamenti fortemente impulsivi, perdita del controllo e bassa tolleranza dello stress. Sono famose le sue ricerche nel caso di Arthur Shawcross, assassino che terrorizzò la città di Rochester, nello stato di New York, uccidendo undici persone in due anni. Shawcross presentava altissimi livelli di Urine kryptopyrrole e, nonostante il fatto che la sua vita sia una storia di alti e bassi fra lavoro, guerra e matrimonio, gli schemi di violenza brutale sono stati presenti nella sua vita fin da quando il soggetto stesso può ricordare.